Come garantire l’istruzione ai figli. Il risparmio ci viene in aiuto.

Università

In un mercato del lavoro, dove sono richieste sempre più competenze di alto livello, il possesso di un titolo di studio accademico agevola la ricerca dell’occupazione.  Gli strumenti del risparmio aiutano le famiglie a dare la massima istruzione ai figli, senza sobbarcarsi di debiti.

In un’era dove le risorse scarseggiano e la ricerca di un posto di lavoro è cosa aspra e dura, fa strada chi possiede il bagaglio culturale e di conoscenze più grande degli altri. Che si volga lo sguardo in Italia o all’estero, le cose non cambiano. Chi più conosce e sa applicare quanto appreso, ha un percorso decisamente più agevole verso un futuro sereno.

Secondo il rapporto annuale 2014 sulla situazione del Paese, fornito dall’Istat (Istituto nazionale di statistica), la partecipazione al mercato del lavoro è strettamente legata all’istruzione. Tra gli uomini di 30-34 anni, l’80% di laureati o diplomati è occupato contro il 67,4% di quelli con al più la licenza media; se laureate, le donne sono occupate nel 73,6% dei casi contro il 37,5% di quelle che hanno al più la licenza media.

L’istruzione dei figli non è più, quindi, un mero obbligo formale, sancito dalla Costituzione. Oggi cessa di esser tale è diventa obbligo morale dei genitori, per dare un’opportunità in più ai figli. Anzi, l’opportunità!

Una recente ricerca di Career Paths, azienda specializzata nella costruzione di percorsi professionali e di carriera dalle scuole medie all’università, dimostra come un investimento nell’educazione abbia un ritorno annuo compreso tra il 30 e il 69% delle somme utilizzate. I dati sono ricavati dal rapporto fra stipendio medio a un anno dalla laurea e investimento sostenuto (per l’università). Risultato: il rendimento di una cifra spesa nell’educazione è pari al 69% per una laurea triennale, al 53% per una laurea magistrale, e al 30% per un quadriennio in uno degli otto college della Ivy League, i mostri sacri dell’accademia americana.

Ma quanto costa mandare i figli a studiare all’università?

Sempre secondo lo stesso studio di Career Paths, per garantire ad uno studente un ciclo di studi triennale, in media le famiglie italiane spendono 19 mila euro totali (6.350 euro annui, dati dalla somma di 1.400 euro di media per le tasse universitarie, 4.500 euro di costi della vita per i fuorisede e 450 euro di libri di testo e materiale didattico); mentre, per un ciclo di studi che comprenda anche la laurea magistrale, la spesa si aggira intorno ai 32 mila euro. Discorso a parte se l’obiettivo è mandare i propri figli a studiare in università private oppure a Yale o Harvard, in America. In questi ultimi casi, i costi lievitano.

Considerati, dunque, i costi non proprio bassi per consentire ad un figlio di portare a compimento un ciclo di studi universitari, le domande successive che ogni famiglia dovrebbe porsi sono: “come rendere disponibili queste somme?” e soprattutto: “come garantirle ai figli in caso di decesso prematuro di uno o entrambi i genitori?”

La soluzione – sbagliata – che molte famiglie adottano difronte alla volontà dei propri figli di conseguire una laurea, è quella di iscriverli all’ateneo più vicino a casa, giustificando la scelta con la più classica delle scuse: “un’università vale l’altra”. Niente di più sbagliato. Come in tutti gli ambiti ci sono persone brave in qualcosa e persone più capaci in altro, così ci sono atenei buoni in alcune discipline e atenei migliori in altre. Se il criterio guida nella scelta dell’università da far frequentare ai figli è quello dell’ateneo migliore, allora è necessario pensare sin da subito a come accantonare le somme necessarie al pagamento degli studi accademici ai figli.

Ma quanto subito?

Semplice: dal momento in cui vengono alla luce. Non c’è regalo migliore che i genitori, i nonni o gli zii possano fare ai propri figli e nipoti, che mettere da parte costantemente le somme necessarie a garantire loro un futuro migliore.  E’ importante iniziare prima possibile, perché così facendo si dovranno fare meno sacrifici, meno rinunce e soprattutto, si avrà il tempo sufficiente per avere a disposizione una somma di denaro maggiore al momento della scelta dell’ateneo migliore.

Quindi, una corretta pianificazione finanziaria della famiglia, non può prescindere dalla previsione di un piano di accumulo che garantisca ai figli – una volta terminato il ciclo di studi superiori – la possibilità di frequentare l’università o di avviare un’attività in proprio.

Sono tanti gli strumenti sul mercato che permettono il raggiungimento di questo obiettivo. Si va dai comunissimi Pac (Piani di accumulo costanti) a soluzioni di tipo assicurativo come i fondi pensione o le polizze vita miste a termine fisso. Queste ultime presentano, in alcuni casi, notevoli vantaggi rispetto ai Pac e ai fondi pensione. Infatti, alcune di queste polizze a termine fisso sono studiate appositamente per questo scopo. Oltre ad essere un salvadanaio in cui versare periodicamente le somme necessarie, hanno la peculiarità di prevedere la continuità dei versamenti delle somme – a carico della compagnia assicurativa – in caso di decesso o invalidità permanente del contraente/assicurato. Questo significa che, in caso di decesso della persona che versa le somme (genitori, nonni, zii), la compagnia assicurativa si farà carico di portare a compimento tutti i versamenti restanti fino al momento in cui il ragazzo potrà iscriversi all’università. Un vantaggio importantissimo. Per quanto riguarda i fondi pensione, invece, i vantaggi di questa formula sono diversi, a partire dalla deduzione fiscale dei premi versati fino a un massimo di 5 mila 165 euro annui. Dopo otto anni dall’adesione, poi, è possibile chiedere un anticipo sui capitali versati per finalità differenti. Per esempio, è possibile disporre del 30% delle somme accumulate per finanziare gli studi. Nel caso in cui si optasse per un piano di accumulo tradizionale o per un fondo pensione, sarà necessario però sottoscrivere anche una  polizza Tcm (polizza vita temporanea caso morte) che, in caso di prematura scomparsa di uno o entrambi i genitori, renda disponibili comunque le somme necessarie agli studi.

Infine, è sconsigliabile usare prodotti come libretti bancari e postali o conti deposito, perché sono strumenti con orizzonte temporale di breve termine (e quindi con rendimenti attesi decisamente bassi), che mal si conciliano con la natura dell’accumulo di capitali per gli studi dei figli, che ha invece un orizzonte temporale di medio/lungo termine.

Ricchi di patrimonio ma senza il becco di un quattrino.

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Dalla crisi dei mutui Subprime ad oggi, la vecchia roccaforte del risparmio degli italiani sta crollando sotto i colpi della crisi economica e della forte tassazione. Il mattone non è più una garanzia, ma un grattacapo.

Per capire le ragioni della crisi strutturale del mercato immobiliare italiano che ha visto affondare le quotazioni di case, negozi, magazzini e capannoni in questi ultimi anni, dobbiamo fare un salto indietro di qualche anno, per la precisione a cavallo tra il 2006 e il 2007, quando ebbe inizio la crisi così detta dei mutui Subprime che ha falcidiato il mercato immobiliare, cresciuto in quegli anni a dismisura  sia sul fronte dei prezzi, sia sul fronte delle case disponibili alla vendita.

Banche, costruttori, immobiliaristi, politici e molti altri contribuirono: direttamente interessati a sostenere il fenomeno in quanto percettori di forti utili. Così tutto è durato oltre misura, oltre ogni ragionevole livello. Il risultato è stata l’esplosione della bolla immobiliare e di quella finanziaria nel momento in cui le famiglie, cui le banche avevano concesso mutui con troppa facilità senza curarsi troppo della reale capacità di questi soggetti di restituire il denaro loro prestato, non hanno più potuto onorare i loro impegni.

Nel frattempo le banche (pure le nostre) si scambiarono titoli cartolarizzati (operazione con la quale si converte ad esempio un mutuo in uno strumento finanziario simile ad una obbligazione, pronto per essere scambiato o peggio ancora ceduto ai risparmiatori) sino a crepare, ed il crack di Lehman Brother rappresentò l’apice della follia: sino al giorno prima le società di rating e gli analisti di tutto il mondo classavano quel colosso con tripla AAA, il massimo della solidità finanziaria.

Il resto è una storia a noi tutti tristemente nota.

Da noi la crisi finanziaria ed immobiliare si è abbattuta su una società gravata dalla presenza di un mercato del lavoro inefficiente, ma nel contempo grassa di privilegi sacri, arcaici ed intoccabili. Ha falcidiato – come ovunque nel mondo del resto – il valore degli immobili, fortino sacro dell’italico risparmiatore (giunti nel periodo pre-crisi a livelli tali da non consentire a dei ragazzi di comprare casa, nemmeno con mutui a 40 anni).

Nello stesso tempo non ha trovato un Paese pronto a mobilitarsi per affrontare l’emergenza, rimboccarsi le maniche e proiettarsi al futuro.

Ha invece trovato un Paese appesantito e ingessato sino allo stremo da una rigidità del lavoro che da anni produce solo ulteriore dispersione di risorse e zero progetti per modificare la situazione, solo provvedimenti tampone.

In questa situazione le nuove generazioni si sono trovate (e si trovano) a non poter svolgere un lavoro, oppure ad accontentarsi solo di lavoro precario, con stipendi piuttosto bassi. In definitiva i figli dei proprietari di immobili oggi non possono mantenere la casa che ereditano, e procedono a venderla – il  più delle volte – perché hanno bisogno di fare cassa (come anche molti proprietari).

Come si dice in economia? “Ricchi di patrimonio, ma senza il becco di un quattrino!” Cosa fai, ti vendi un balcone per andare avanti? non si può, devi vendere tutta la casa.

Questo fenomeno, tutt’ora in corso, ha prodotto, e produrrà, un ulteriore flusso di vendite di immobili, proprio perché i redditi – presenti e futuri – di gran parte della popolazione rimarranno bassi.

Ma non basta.

Il lavoro sarà sempre più legato alla produttività piuttosto che ai Ccnl (contratti di lavoro collettivi): il futuro degli italiani non sarà più basato su stipendi e pensioni garantite. E su questo, di recente, l’attuale Presidente del Consiglio è stato molto chiaro, senza sottili giri di parole: “Il posto fisso non esiste più”.

Ma ancora non basta, c’è dell’altro.

Un ulteriore fenomeno di erosione del valore degli immobili è collegato al pesante carico fiscale sulle seconde case, inasprimento inevitabile, perché il nostro Stato non può più tartassare ulteriormente il mondo produttivo, pena la chiusura di ogni tipo di attività.

Non possono fare altro: tassare il patrimonio visibile e non trasferibile oltre confine. E cosa c’è di meglio del patrimonio immobiliare degli italiani il cui valore supera la pazzesca cifra di 7.000 miliardi di euro? Nulla! E’ questa la grande ricchezza visibile degli italiani. Per capire meglio le dimensioni del fenomeno basta pensare che mettendo insieme tutto il debito pubblico dell’Italia (poco più di 2.000 miliardi di euro) e tutta la ricchezza finanziaria degli italiani (circa 4.500 miliardi di euro), non si raggiunge quella cifra.

Perciò, dati alla mano, sappiate che ogni qual volta il Governo avrà bisogno di reperire risorse, non ci penserà due volte a tassare gli immobili.

Da noi poi c’è anche una questione su cui tutti sembrano far finta di niente: la cementificazione è enorme, il rapporto abitazioni/popolazione è altissimo, dunque non abbiamo necessità di costruire nuovi alloggi, la popolazione diminuisce e l’unico motivo per spronare l’edilizia risiede nel fatto che essa produce reddito per moltissimi lavoratori ed operatori del settore e non è un caso che le poche detrazioni fiscali concesse dallo Stato siano proprio indirizzate verso interventi di recupero e restauro del patrimonio edilizio già esistente.

Per finire c’è da considerare l’importantissima questione di cui molto presto sentiremo parlare allo sfinimento su TV e giornali: l’inevitabile inasprimento dell’imposta di successione. Una manovra che garantirebbe alle casse dello Stato circa 40 miliardi di euro all’anno.

Oggi l’Italia è un paradiso fiscale da questo punto di vista. Caso unico in tutta Europa, abbiamo una franchigia di esenzione pari ad 1 milione di euro per ogni erede, e la tassa parte dal 4% per figli e coniuge.

Le medie europee sul tema sono molto più elevate e già sono forti le pressioni verso il Governo per allineare l’imposta di successione del Bel Paese alla media europea. Le indiscrezioni, parlano di abbassare l’esenzione a 100 mila euro e l’aliquota minima al 20%.

E’ chiaro?

Questo significa che chi erediterà una casa si dovrà ricomprare dallo Stato buona parte della casa stessa, senza contare l’ulteriore mazzata che sta per giungere: la revisione delle rendite catastali – in base alle quali si pagano Imu e Tasi – che saranno certamente ritoccate al rialzo.

Cosa credete causerà tutto questo al mercato immobiliare?

E’ la fine di un’epoca, signori e chi si sveglierà per primo potrà evitare gran parte dei guai. La crisi del mercato immobiliare è destinata ed essere permanente, non passeggera.

Parafrasando una famosa frase del film “L’ultima minaccia” di Richard Brooks, verrebbe da dire: <<E’ il de profundis del mattone, bellezza. L’ultimo saluto. E tu non ci puoi fare niente! Niente!>>.

Far lavorare i soldi per noi. Illusione o obiettivo possibile?

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Diversificazione del rischio,  orizzonte temporale adeguato e obiettivi  ben precisi. Questi i punti da cui partire per puntare ad un reddito periodico e alla crescita del capitale nel tempo.

Con lo scoppio della crisi finanziaria ed occupazionale e l’intensificarsi dei suoi effetti, il boom dei giochi a premio e del gratta e vinci in particolare, con Win for Life su tutti, ha riproposto il mito del vivere di rendita, con la speranza di vincere 4.000 € al mese per vent’anni; e da allora è stato un continuo proliferare di gratta e vinci che promettono rendite da nababbi: “Turista per Sempre” della Lottomatica, ad esempio, promette, con l’acquisto di un biglietto da 5 euro la speranza di vincere 200.000, 6.000 euro al mese per 20 anni e almeno 100.000 euro di bonus finale.

Al di là dei “sogni dorati”, realizzati da pochissimi fortunati, volgendo lo sguardo al lato pratico, è possibile e con quali strumenti si può costruire il proprio piano di rendita?

Occorre fare innanzitutto una doverosa premessa. Il vivere di rendita presuppone l’avere già un capitale accumulato. Volendo collocarsi temporalmente nella vita di un lavoratore si può idealmente immaginare di trovarsi in una fase avanzata, sul calare della carriera sia per raggiunti limiti di età o per fuoriuscita “forzata” dal mondo del lavoro. Altro caso concreto potrebbe essere quello di avere avuto guadagni importanti derivanti o da idee imprenditoriali vincenti o ancora da eventi economicamente fortunati (eredità, vincite), che hanno consentito di far “guadagnare” qualche anno al progetto di rendita.

La buona notizia è che per avere una soddisfacente integrazione del proprio reddito non è necessaria una cifra enorme. Già con 30.000 euro, ad esempio, nell’odierno contesto di mercato, si può ottenere una rendita annua pari a circa 1.600 euro (135 euro al mese), senza esporsi a rischi importanti. Se invece consideriamo un capitale di 100.000 euro, la cedola sarà di 5.400 euro lordi all’anno. Per intenderci, più di quanto oggi riesce a fruttare un appartamento al mare di pari valore se lo si fittasse.

Considerato tutto ciò, esiste un’interessante soluzione che consente di combinare un’ampia diversificazione del rischio del portafoglio a una remunerazione periodica dell’investimento, permettendo ai risparmiatori di vivere di rendita con i fondi, o più realisticamente, di integrare il proprio reddito da lavoro per affrontare con più tranquillità le spese quotidiane oppure concedersi qualche spesa in più (viaggi, cene, etc.). La soluzione consiste nel sottoscrivere i comparti dei fondi a distribuzione della cedola.

I fondi comuni di investimento con questa caratteristica assicurano, come tutti i fondi comuni d’investimento, un’efficace diversificazione del rischio (quindi un rischio abbastanza contenuto di avere perdite sul capitale). Il gestore, infatti, investe di solito in centinaia di titoli, il che riduce il pericolo di fallimento a percentuali frazionali del portafoglio: se, per esempio, si hanno in portafoglio 100 titoli (obbligazioni, azioni) di altrettanti diversi emittenti, e uno di questi dovesse fallire o andare particolarmente male, la perdita sarebbe limitata a circa l’1% del portafoglio. Questo permette di poter contare con ragionevole certezza (sebbene senza nessuna garanzia assoluta) che il capitale investito sia, non solo disponibile nel medio lungo termine (dai 3 ai 10 anni o più a seconda della tipologia di comparto sottoscritto), ma anche rivalutato.

In parallelo, come già detto, il fondo che distribuisce una cedola periodica aggiunge un importante beneficio al sottoscrittore: quello, cioè, di incassare una rendita utilizzabile per molteplici finalità: integrare le entrate di famiglia, coprire alcune spese finalizzate a migliorare la qualità della vita (come, per esempio, pagare la retta scolastica piuttosto che l’affitto di una seconda casa al mare o in montagna), finanziarie le rate di un prestito (per l’auto, per gli arredi della casa, etc.), migliorare le risorse a disposizione per il divertimento e per il tempo libero (viaggi, vacanze, palestra, etc.). Senza poi trascurare un’altra importante proprietà che l’incasso della cedola esercita sulla psicologia del risparmiatore. Quest’ultimo, infatti, potendo contare su un reddito periodico, è spinto a concentrare la propria attenzione su come utilizzare al meglio tale rendita e a essere meno apprensivo sul calcolo del guadagno o della perdita del fondo: a quel calcolo ci si potrà dedicare con la giusta calma ogni tre/sei mesi o una volta all’anno.

Tutto questo permette al risparmiatore di beneficiare, anno per anno, dei frutti (sotto forma di cedole periodiche) dell’investimento e di mantenere nel medio lungo termine il valore del capitale investito.

Sul mercato italiano, sono disponibili parecchi fondi a distribuzione delle cedole: qualcuno lo fa una volta l’anno, altri ogni sei mesi, altri ancora ogni trimestre e alcuni, addirittura, liquidano una cedola al mese.

Al momento della scelta dei fondi in cui investire per ottenere la rendita, è opportuno informarsi innanzitutto su come viene generata quella rendita. Questo perché, alcuni fondi, allo scopo di mantenere le promesse circa l’importo fisso della cedola, oltre ai proventi maturati, disinvestono anche parte del capitale. Questa è una cosa assolutamente da evitare, perché intaccherebbe in maniera importante, riducendolo, la fonte primaria della rendita: il Capitale investito.  In linea con quanto appena detto, bisogna poi fare attenzione alle offerte troppo allettanti. Facciamo un esempio. Nel contesto di mercato odierno, caratterizzato da tassi di interesse estremamente bassi, la promessa di cedole elevate, nella maggior parte dei casi nasconde dei rischi occulti: operazioni in derivati e opzioni, disinvestimenti del capitale, utilizzo smodato della leva finanziaria e via dicendo. Oggi, una cedola annua che con ragionevole certezza (ma bisogna sempre verificare) non nasconde sorprese, non dovrebbe superare il 5% lordo. Se desideriamo di più, dobbiamo anche essere disposti a rischiare più del necessario e considerare la possibilità di vedere delle perdite di capitale anche importanti nel breve periodo.

Altro aspetto importante da valutare con attenzione, specialmente se la rendita che il capitale riesce a generare è di modesta entità, è il costo che talune banche fanno pagare ai propri correntisti per l’accredito delle cedole. Il consiglio è quello di aprire un conto corrente dove non sia previsto il costo per l’accredito di cedole e dividenti, e verificare che la banca corrispondente della società che gestisce il fondo non faccia pagare l’accredito di dividenti. In caso contrario si rischia di pagare due volte lo stesso servizio, riducendo così in maniera importante il valore della rendita, specie se di modesta entità e con erogazione frequente (mensile, trimestrale).

Infine, l’investitore tenga presente che, tutti i proventi incassati dalle cedole, non incidono ai fini del calcolo delle imposte sul reddito, in quanto tali proventi, al momento dell’erogazione sul conto corrente, hanno già scontato l’imposta sostitutiva che oscillerà tra il minimo del 12,5% nel caso il fondo sia composto interamente da titoli governativi al 26% nel caso in cui non vi sia presenza di questi titoli o assimilati. Nella realtà, l’imposta sarà calcolata con un’aliquota media compresa tra le due aliquote minima e massima, a seconda del peso che le classi di titoli avranno all’interno del fondo.

Paura del buio? I consigli per dormire sereni.

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A tutti noi è capitato da piccoli di avere paura del buio. Una sensazione tanto forte, quanto irrazionale, che ci portava a vedere pericoli ovunque e a tirar su la coperta fino alle orecchie: nell’armadio, sotto al letto, dietro la porta, nelle ombre. Ma la mattina seguente, alla luce del sole, tutto tornava tranquillo. L’armadio tornava ad essere il posto rassicurante di sempre, col suo forte odore di naftalina, dove conservare i vestiti e scomparire quando si giocava a nascondino con gli amici; gli oggetti della stanza riacquistavano la loro familiarità e noi la serenità e il sorriso.

Anche negli investimenti non è molto diverso. I risparmiatori tendono a farsi assalire da paure spesso irrazionali e ingiustificate, che portano a scappare quando i mercati scendono e ad investire con euforia quando salgono. Niente di più sbagliato. Questo atteggiamento è spiegato dalla finanza comportamentale ed è un comportamento normalissimo degli esseri umani, un retaggio primitivo, che ha consentito all’uomo di arrivare fino ad oggi, proteggendolo dai pericoli del mondo agli albori dell’umanità e che è rimasto nonostante millenni di evoluzione.

Un comportamento però, che nel mondo del risparmio ha un effetto disastroso. Disinvestire quando i mercati scendono e investire quando salgono è il primo passo per essere tosati come pecore. Nel primo caso si realizzano materialmente perdite, che spesso possono essere tranquillamente recuperate nel tempo, perdendo ottime opportunità di guadagno; nel secondo caso si rischia di mettere i propri risparmi in strumenti finanziari che sono saliti talmente tanto, che la quotazione è del tutto ingiustificata e che poi crollano di colpo (le famose “bolle finanziarie”: l’ultima la bolla del mercato immobiliare Statunitense che tra il 2006 e il 2007 aveva raggiunto quotazioni folli, drogato dal fenomeno dei mutui Subprime, che ha acceso la miccia della crisi finanziaria del 2008), facendo perdere gran parte dei risparmi alla gente.

A questo punto è lecito domandarsi: “Come gestire tutto questo?”

Avventurarti negli investimenti e nel risparmio da solo, te lo dico subito, è la cosa peggiore che puoi fare. Col bombardamento mediatico di TV, giornali, riviste e siti internet e le pressanti offerte commerciali di banche e assicurazioni è difficile oggigiorno avere le idee chiare su come investire, in cosa e perché.  Il risultato è quello di vivere con ansia, paura o euforia eccessiva le fasi di discesa e di salita dei mercati, realizzando, nella maggior parte dei casi, perdite anche importanti.

I risparmiatori e gli investitori di successo, che guadagnano anche durante la crisi, sono quelli che investono per il raggiungimento di obiettivi specifici e che, una volta scelta la strategia e gli strumenti per adottarla, rimangono fedeli ad essa, indipendentemente che i mercati salgano o scendano. Perché accade questo? Semplice! Perché le scelte di investimento sono frutto di un piano, di una strategia che deve dare i suoi frutti in un determinato periodo di tempo programmato ed è solo allora che si tireranno le somme e si valuterà se l’investimento è stato buono o meno buono. Tutto ciò che succede nel frattempo è irrilevante se si sono definiti bene obiettivi e profilo di rischio e scelti gli strumenti adatti a portare avanti la strategia.  Invece, tutte le scelte fatte a caso o sulla base di previsioni o consigli del “Guru” di turno, dell’amico o del parente, si dimostrano quasi sempre un fallimento, questo perché nessuno è in grado di prevedere il futuro. Chi dice il contrario, nel migliore dei casi è un ciarlatano che vi farà perdere un sacco di soldi.

Ad ogni modo, il ruolo del consulente finanziario è cruciale per rispondere alla domanda. Di fronte a un cliente che umanamente ha desideri e paure, è chiamato a tradurre i primi in obiettivi d’investimento e le seconde in profilo di rischio. Per poi conciliarle in un piano d’azione condiviso. Un compito tutt’altro che semplice.

Ma come scegliere il giusto consulente finanziario?

In giro ci sono tantissimi consulenti finanziari, o sedicenti tali. Tutti belli, bravi e buoni, ma il consulente finanziario, quello bravo e che sta dalla tua parte, è quello che prima di tutto si interessa a te e poi ai tuoi soldi. Il bravo consulente è quello che vuole conoscerti sempre meglio, quello che si interessa alle tue esigenze, ai tuoi desideri, i tuoi sogni, insomma, alla tua vita e poi ai soldi che sei disposto ad investire. Non viceversa. Il compito del consulente finanziario è quello di tradurre le tue esigenze in obiettivi e accompagnarti a raggiungerli, gestendo le tue ansie,  le tue paure ed in genere la tua emotività, per farti diventare un risparmiatore vincente.

Quale futuro in pensione? Meglio pensarci sin da giovani.

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Uno dei temi più caldi degli ultimi anni, che ha infiammato i dibattiti televisivi e acceso lo scontro politico, è quello delle pensioni degli Italiani.

Le pensioni sono ormai oggetto di continue riforme sin dall’inizio degli anni ’90, in un susseguirsi di leggi e decreti, culminati con la famigerata “riforma Fornero”, che ha alzato ancora l’età di accesso alla pensione e ridotto l’importo della stessa.

Nell’ultimo ventennio si è così passati da un sistema pensionistico pubblico che garantiva in media l’80% dell’ultimo stipendio (sistema Retributivo), ad un sistema che, a seconda dei casi, fa variare l’importo della pensione tra il 30% e il 70% dell’ultima retribuzione da lavoro (sistema Contributivo).

Il perché di questa significativa differenza sta nel meccanismo di calcolo della pensione che dipenderà non solo dalla quantità di contributi accumulati dal lavoratore nel corso della sua vita lavorativa, ma anche dall’andamento dell’economia del Paese e da altri fattori, in quanto la rivalutazione annuale dei contributi versati è legata al valore della media quinquennale del PIL italiano.

Va da se che, problemi che oggi affliggono il Bel Paese quali precariato, disoccupazione e scarsa crescita economica incideranno negativamente sulle future pensioni e a farne le spese saranno soprattutto lavoratori autonomi e liberi professionisti.

Questi lavoratori avranno diritto ad una pensione pari a circa il 30% – 50% dell’ultimo reddito da lavoro. Più “fortunati” i lavoratori dipendenti, a condizione che non abbiano periodi di disoccupazione, con una pensione che sarà tra il 60% – 70% dell’ultimo stipendio.

Come correre ai ripari?

Le riforme di questi anni, non si sono limitate solo ad alzare l’età del pensionamento e a ridurre la pensione pubblica, ma hanno anche introdotto e incentivato la Previdenza Complementare, prevedendo vantaggi di varia natura (anche fiscali) per quei lavoratori che sottoscrivono Fondi Pensione e Piani Pensionistici Individuali.

I primi, sono strumenti pensionistici integrativi di natura finanziaria; i secondi, di natura per lo più assicurativa. Entrambi gli strumenti hanno lo scopo di consentire al lavoratore di colmare il più possibile quella differenza tra pensione pubblica e ultimo reddito da lavoro che, come detto in precedenza, può essere molto ampia e incidere in maniera importante sulla qualità della vita del pensionato. Vediamo ora un esempio.

Federico ha 28 anni e gestisce il suo Bar da 3 anni. Egli ha un reddito netto annuale di circa 12.000 euro. In base alle leggi vigenti, maturerà il diritto ad andare in pensione a gennaio 2056, all’età di 69 anni e 9 mesi. Il reddito stimato di Federico a quella data, tenuto conto dell’inflazione e di una moderata crescita dei guadagni nel tempo, sarà di circa 35.000 euro. La sua pensione, invece, sarà pari a circa 16.000 euro, cioè il 46% di quello che guadagnerà prima di andare in pensione. Se Federico non prenderà provvedimenti, sin da subito, si troverà ad avere ad avere una pensione più che dimezzata.

Versando ad un Fondo Pensione, ad esempio, la cifra di 150 euro al mese, Federico riuscirà a garantirsi una pensione integrativa di 6.000 euro l’anno che, sommata a quella pubblica, gli consentirà di godere di una pensione complessiva di circa 22.000 euro, pari al 64% di quello che guadagnerà quando avrà smesso di lavorare. In caso di morte, Federico potrà anche scegliere di destinare la pensione integrativa alla moglie e ai figli.

Non provvedere alla propria vecchiaia è una scelta irresponsabile, perché un giorno bisognerà fare i conti col pensionamento e le prospettive future circa le pensioni pubbliche sono per ulteriori tagli. Rimandare la decisione di aderire ad una forma di previdenza integrativa, invece, può costare caro. Iniziando sin da giovani si dovranno versare delle somme più piccole e quindi si dovranno fare meno rinunce e sacrifici, perché si verserà più a lungo e i rendimenti cumulati nel tempo consentiranno di ottenere una somma maggiore, rispetto a chi, inizierà più tardi a metter da parte dei soldi per garantirsi una vecchiaia serena.

Tutela del reddito della famiglia: proteggere i propri cari dalle disgrazie

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La famiglia è universalmente riconosciuta come nucleo sociale per eccellenza, tanto da meritarsi una serie di tutele riconosciute dalla Costituzione.

Essa è centro gravitazionale di affetti, valori e tutele, oggi più che mai. Basti pensare al ruolo sempre meno presente dello Stato nell’assicurare assistenza e sostegno economico a quelle fasce di popolazione svantaggiate che, per svariati motivi, non possono provvedere autonomamente al proprio sostentamento o che hanno bisogno della continua assistenza di una persona per lo svolgimento anche delle più semplici attività quotidiane. Stiamo parlando di minori, anziani, invalidi e inabili.

I familiari rappresentano una vera e propria ancora di salvezza per questi soggetti, senza i quali, per alcuni di loro, sarebbe impossibile la sopravvivenza.

Il punto della questione però è un altro. Incontro a quale destino andrebbero queste persone, nel caso in cui dovesse venire a mancare anche solo uno dei portatori di reddito della famiglia (spesso le famiglie sono persino monoreddito)?

E’ vero che l’amore di un proprio caro non ha prezzo e nessuna somma al mondo sarà mai in grado di colmare il vuoto lasciato nei nostri cuori, ma la scomparsa del sostegno economico di una famiglia, senza le opportune tutele, rischia di trasformarsi in una tragedia con conseguenze più ampie.

Immaginate un signore quarantenne, sposato e con figli minorenni ancora in età scolare. Lui dipendente di una ditta di autotrasporti, la moglie casalinga, casa di proprietà e mutuo ancora da pagare. Per svariate circostanze il nostro quarantenne si ammala e nel giro di qualche mese viene a mancare. Egli era riuscito a mettere da parte una piccola somma di circa quindicimila euro. Al dramma della scomparsa del marito e padre dei due bambini, si somma quello della totale assenza di reddito della famiglia, l’istruzione da garantire ai figli e il mutuo da pagare. L’unica risorsa economica sulla quale potrà contare la famiglia sono i quindicimila euro (al termine della successione), che tra spese di funerale e varie basterà per poco tempo.

Come avrebbe potuto proteggere la propria famiglia il nostro quarantenne?

Lo strumento da utilizzare, in una corretta pianificazione finanziaria della famiglia, per far fronte a rischi di questo tipo è la TCM, ossia la polizza assicurativa caso morte, che a fronte del pagamento annuo del premio, garantisce l’erogazione ai beneficiari delle somme pattuite in caso di decesso dell’assicurato (in alcune polizze è coperto anche il caso di invalidità permanente).

La domanda successiva da porsi è: quale somma devo assicurare?

Non c’è una risposta univoca, e a questa domanda può rispondere solo ciascuno di noi in base agli impegni che ha in essere, allo stile di vita che conduce la propria famiglia, alle esigenze delle persone a carico e così via. Un buon punto di partenza è quello di considerare subito l’ammontare dei debiti a carico (mutui, prestiti, etc.) in modo almeno da non lasciare passività agli eredi e poi considerare il costo annuo della famiglia e quantificare il fabbisogno economico dei soggetti a carico per il tempo fino a quanto non saranno in grado di provvedere autonomamente.

Ad esempio, se si vuol tutelare un minore fino al completamento del ciclo di studi universitari, si dovrà quantificare una cifra da assicurare che tenga conto anche dei costi legati ad un percorso di studi universitari.

Tutelare la propria famiglia passa anche da una corretta pianificazione finanziaria e dalla copertura dai grandi rischi, partendo proprio dalla tutela del reddito che, non allevierà mai il dolore per la scomparsa di una persona cara, ma se ciò dovesse accadere, consentirà di affrontare più serenamente il futuro.