Come garantire l’istruzione ai figli. Il risparmio ci viene in aiuto.

Università

In un mercato del lavoro, dove sono richieste sempre più competenze di alto livello, il possesso di un titolo di studio accademico agevola la ricerca dell’occupazione.  Gli strumenti del risparmio aiutano le famiglie a dare la massima istruzione ai figli, senza sobbarcarsi di debiti.

In un’era dove le risorse scarseggiano e la ricerca di un posto di lavoro è cosa aspra e dura, fa strada chi possiede il bagaglio culturale e di conoscenze più grande degli altri. Che si volga lo sguardo in Italia o all’estero, le cose non cambiano. Chi più conosce e sa applicare quanto appreso, ha un percorso decisamente più agevole verso un futuro sereno.

Secondo il rapporto annuale 2014 sulla situazione del Paese, fornito dall’Istat (Istituto nazionale di statistica), la partecipazione al mercato del lavoro è strettamente legata all’istruzione. Tra gli uomini di 30-34 anni, l’80% di laureati o diplomati è occupato contro il 67,4% di quelli con al più la licenza media; se laureate, le donne sono occupate nel 73,6% dei casi contro il 37,5% di quelle che hanno al più la licenza media.

L’istruzione dei figli non è più, quindi, un mero obbligo formale, sancito dalla Costituzione. Oggi cessa di esser tale è diventa obbligo morale dei genitori, per dare un’opportunità in più ai figli. Anzi, l’opportunità!

Una recente ricerca di Career Paths, azienda specializzata nella costruzione di percorsi professionali e di carriera dalle scuole medie all’università, dimostra come un investimento nell’educazione abbia un ritorno annuo compreso tra il 30 e il 69% delle somme utilizzate. I dati sono ricavati dal rapporto fra stipendio medio a un anno dalla laurea e investimento sostenuto (per l’università). Risultato: il rendimento di una cifra spesa nell’educazione è pari al 69% per una laurea triennale, al 53% per una laurea magistrale, e al 30% per un quadriennio in uno degli otto college della Ivy League, i mostri sacri dell’accademia americana.

Ma quanto costa mandare i figli a studiare all’università?

Sempre secondo lo stesso studio di Career Paths, per garantire ad uno studente un ciclo di studi triennale, in media le famiglie italiane spendono 19 mila euro totali (6.350 euro annui, dati dalla somma di 1.400 euro di media per le tasse universitarie, 4.500 euro di costi della vita per i fuorisede e 450 euro di libri di testo e materiale didattico); mentre, per un ciclo di studi che comprenda anche la laurea magistrale, la spesa si aggira intorno ai 32 mila euro. Discorso a parte se l’obiettivo è mandare i propri figli a studiare in università private oppure a Yale o Harvard, in America. In questi ultimi casi, i costi lievitano.

Considerati, dunque, i costi non proprio bassi per consentire ad un figlio di portare a compimento un ciclo di studi universitari, le domande successive che ogni famiglia dovrebbe porsi sono: “come rendere disponibili queste somme?” e soprattutto: “come garantirle ai figli in caso di decesso prematuro di uno o entrambi i genitori?”

La soluzione – sbagliata – che molte famiglie adottano difronte alla volontà dei propri figli di conseguire una laurea, è quella di iscriverli all’ateneo più vicino a casa, giustificando la scelta con la più classica delle scuse: “un’università vale l’altra”. Niente di più sbagliato. Come in tutti gli ambiti ci sono persone brave in qualcosa e persone più capaci in altro, così ci sono atenei buoni in alcune discipline e atenei migliori in altre. Se il criterio guida nella scelta dell’università da far frequentare ai figli è quello dell’ateneo migliore, allora è necessario pensare sin da subito a come accantonare le somme necessarie al pagamento degli studi accademici ai figli.

Ma quanto subito?

Semplice: dal momento in cui vengono alla luce. Non c’è regalo migliore che i genitori, i nonni o gli zii possano fare ai propri figli e nipoti, che mettere da parte costantemente le somme necessarie a garantire loro un futuro migliore.  E’ importante iniziare prima possibile, perché così facendo si dovranno fare meno sacrifici, meno rinunce e soprattutto, si avrà il tempo sufficiente per avere a disposizione una somma di denaro maggiore al momento della scelta dell’ateneo migliore.

Quindi, una corretta pianificazione finanziaria della famiglia, non può prescindere dalla previsione di un piano di accumulo che garantisca ai figli – una volta terminato il ciclo di studi superiori – la possibilità di frequentare l’università o di avviare un’attività in proprio.

Sono tanti gli strumenti sul mercato che permettono il raggiungimento di questo obiettivo. Si va dai comunissimi Pac (Piani di accumulo costanti) a soluzioni di tipo assicurativo come i fondi pensione o le polizze vita miste a termine fisso. Queste ultime presentano, in alcuni casi, notevoli vantaggi rispetto ai Pac e ai fondi pensione. Infatti, alcune di queste polizze a termine fisso sono studiate appositamente per questo scopo. Oltre ad essere un salvadanaio in cui versare periodicamente le somme necessarie, hanno la peculiarità di prevedere la continuità dei versamenti delle somme – a carico della compagnia assicurativa – in caso di decesso o invalidità permanente del contraente/assicurato. Questo significa che, in caso di decesso della persona che versa le somme (genitori, nonni, zii), la compagnia assicurativa si farà carico di portare a compimento tutti i versamenti restanti fino al momento in cui il ragazzo potrà iscriversi all’università. Un vantaggio importantissimo. Per quanto riguarda i fondi pensione, invece, i vantaggi di questa formula sono diversi, a partire dalla deduzione fiscale dei premi versati fino a un massimo di 5 mila 165 euro annui. Dopo otto anni dall’adesione, poi, è possibile chiedere un anticipo sui capitali versati per finalità differenti. Per esempio, è possibile disporre del 30% delle somme accumulate per finanziare gli studi. Nel caso in cui si optasse per un piano di accumulo tradizionale o per un fondo pensione, sarà necessario però sottoscrivere anche una  polizza Tcm (polizza vita temporanea caso morte) che, in caso di prematura scomparsa di uno o entrambi i genitori, renda disponibili comunque le somme necessarie agli studi.

Infine, è sconsigliabile usare prodotti come libretti bancari e postali o conti deposito, perché sono strumenti con orizzonte temporale di breve termine (e quindi con rendimenti attesi decisamente bassi), che mal si conciliano con la natura dell’accumulo di capitali per gli studi dei figli, che ha invece un orizzonte temporale di medio/lungo termine.

Ricchi di patrimonio ma senza il becco di un quattrino.

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Dalla crisi dei mutui Subprime ad oggi, la vecchia roccaforte del risparmio degli italiani sta crollando sotto i colpi della crisi economica e della forte tassazione. Il mattone non è più una garanzia, ma un grattacapo.

Per capire le ragioni della crisi strutturale del mercato immobiliare italiano che ha visto affondare le quotazioni di case, negozi, magazzini e capannoni in questi ultimi anni, dobbiamo fare un salto indietro di qualche anno, per la precisione a cavallo tra il 2006 e il 2007, quando ebbe inizio la crisi così detta dei mutui Subprime che ha falcidiato il mercato immobiliare, cresciuto in quegli anni a dismisura  sia sul fronte dei prezzi, sia sul fronte delle case disponibili alla vendita.

Banche, costruttori, immobiliaristi, politici e molti altri contribuirono: direttamente interessati a sostenere il fenomeno in quanto percettori di forti utili. Così tutto è durato oltre misura, oltre ogni ragionevole livello. Il risultato è stata l’esplosione della bolla immobiliare e di quella finanziaria nel momento in cui le famiglie, cui le banche avevano concesso mutui con troppa facilità senza curarsi troppo della reale capacità di questi soggetti di restituire il denaro loro prestato, non hanno più potuto onorare i loro impegni.

Nel frattempo le banche (pure le nostre) si scambiarono titoli cartolarizzati (operazione con la quale si converte ad esempio un mutuo in uno strumento finanziario simile ad una obbligazione, pronto per essere scambiato o peggio ancora ceduto ai risparmiatori) sino a crepare, ed il crack di Lehman Brother rappresentò l’apice della follia: sino al giorno prima le società di rating e gli analisti di tutto il mondo classavano quel colosso con tripla AAA, il massimo della solidità finanziaria.

Il resto è una storia a noi tutti tristemente nota.

Da noi la crisi finanziaria ed immobiliare si è abbattuta su una società gravata dalla presenza di un mercato del lavoro inefficiente, ma nel contempo grassa di privilegi sacri, arcaici ed intoccabili. Ha falcidiato – come ovunque nel mondo del resto – il valore degli immobili, fortino sacro dell’italico risparmiatore (giunti nel periodo pre-crisi a livelli tali da non consentire a dei ragazzi di comprare casa, nemmeno con mutui a 40 anni).

Nello stesso tempo non ha trovato un Paese pronto a mobilitarsi per affrontare l’emergenza, rimboccarsi le maniche e proiettarsi al futuro.

Ha invece trovato un Paese appesantito e ingessato sino allo stremo da una rigidità del lavoro che da anni produce solo ulteriore dispersione di risorse e zero progetti per modificare la situazione, solo provvedimenti tampone.

In questa situazione le nuove generazioni si sono trovate (e si trovano) a non poter svolgere un lavoro, oppure ad accontentarsi solo di lavoro precario, con stipendi piuttosto bassi. In definitiva i figli dei proprietari di immobili oggi non possono mantenere la casa che ereditano, e procedono a venderla – il  più delle volte – perché hanno bisogno di fare cassa (come anche molti proprietari).

Come si dice in economia? “Ricchi di patrimonio, ma senza il becco di un quattrino!” Cosa fai, ti vendi un balcone per andare avanti? non si può, devi vendere tutta la casa.

Questo fenomeno, tutt’ora in corso, ha prodotto, e produrrà, un ulteriore flusso di vendite di immobili, proprio perché i redditi – presenti e futuri – di gran parte della popolazione rimarranno bassi.

Ma non basta.

Il lavoro sarà sempre più legato alla produttività piuttosto che ai Ccnl (contratti di lavoro collettivi): il futuro degli italiani non sarà più basato su stipendi e pensioni garantite. E su questo, di recente, l’attuale Presidente del Consiglio è stato molto chiaro, senza sottili giri di parole: “Il posto fisso non esiste più”.

Ma ancora non basta, c’è dell’altro.

Un ulteriore fenomeno di erosione del valore degli immobili è collegato al pesante carico fiscale sulle seconde case, inasprimento inevitabile, perché il nostro Stato non può più tartassare ulteriormente il mondo produttivo, pena la chiusura di ogni tipo di attività.

Non possono fare altro: tassare il patrimonio visibile e non trasferibile oltre confine. E cosa c’è di meglio del patrimonio immobiliare degli italiani il cui valore supera la pazzesca cifra di 7.000 miliardi di euro? Nulla! E’ questa la grande ricchezza visibile degli italiani. Per capire meglio le dimensioni del fenomeno basta pensare che mettendo insieme tutto il debito pubblico dell’Italia (poco più di 2.000 miliardi di euro) e tutta la ricchezza finanziaria degli italiani (circa 4.500 miliardi di euro), non si raggiunge quella cifra.

Perciò, dati alla mano, sappiate che ogni qual volta il Governo avrà bisogno di reperire risorse, non ci penserà due volte a tassare gli immobili.

Da noi poi c’è anche una questione su cui tutti sembrano far finta di niente: la cementificazione è enorme, il rapporto abitazioni/popolazione è altissimo, dunque non abbiamo necessità di costruire nuovi alloggi, la popolazione diminuisce e l’unico motivo per spronare l’edilizia risiede nel fatto che essa produce reddito per moltissimi lavoratori ed operatori del settore e non è un caso che le poche detrazioni fiscali concesse dallo Stato siano proprio indirizzate verso interventi di recupero e restauro del patrimonio edilizio già esistente.

Per finire c’è da considerare l’importantissima questione di cui molto presto sentiremo parlare allo sfinimento su TV e giornali: l’inevitabile inasprimento dell’imposta di successione. Una manovra che garantirebbe alle casse dello Stato circa 40 miliardi di euro all’anno.

Oggi l’Italia è un paradiso fiscale da questo punto di vista. Caso unico in tutta Europa, abbiamo una franchigia di esenzione pari ad 1 milione di euro per ogni erede, e la tassa parte dal 4% per figli e coniuge.

Le medie europee sul tema sono molto più elevate e già sono forti le pressioni verso il Governo per allineare l’imposta di successione del Bel Paese alla media europea. Le indiscrezioni, parlano di abbassare l’esenzione a 100 mila euro e l’aliquota minima al 20%.

E’ chiaro?

Questo significa che chi erediterà una casa si dovrà ricomprare dallo Stato buona parte della casa stessa, senza contare l’ulteriore mazzata che sta per giungere: la revisione delle rendite catastali – in base alle quali si pagano Imu e Tasi – che saranno certamente ritoccate al rialzo.

Cosa credete causerà tutto questo al mercato immobiliare?

E’ la fine di un’epoca, signori e chi si sveglierà per primo potrà evitare gran parte dei guai. La crisi del mercato immobiliare è destinata ed essere permanente, non passeggera.

Parafrasando una famosa frase del film “L’ultima minaccia” di Richard Brooks, verrebbe da dire: <<E’ il de profundis del mattone, bellezza. L’ultimo saluto. E tu non ci puoi fare niente! Niente!>>.

Orientarsi tra le proposte di banche, poste, assicurazioni e consulenti. Ecco come evitare brutte sorprese.

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Non è facile orientarsi nella giungla selvaggia delle offerte di prodotti finanziari e assicurativi. Il rischio è quello di incappare in soggetti pronti a rifilare qualsiasi cosa, infischiandosene delle esigenze del cliente. I consigli per uscirne vincenti.

Caro lettore, oggi voglio iniziare raccontandoti qualche aneddoto. Qualche mese fa decisi di fare una piccola ricerca di mercato. Volevo scoprire di persona cosa offriva la mia concorrenza e il loro modo di lavorare. Decisi così recitare la parte del cliente con scarse conoscenze finanziarie, interessato ad investire una somma di circa 30 mila euro e mi recai presso alcune banche.

Nella prima visita mi presento all’impiegata dello sportello consulenza dicendo che ho queste somme derivanti da vecchi risparmi e che vorrei investirli. Chiedo perciò cosa può consigliarmi. La ragazza mi propone subito un buono di risparmio della banca vincolato a 24 mesi con un tasso di interesse annuo netto dell’ 1,36%. Non mi chiede per quanto tempo posso tenere il denaro vincolato, né che esigenze ho. Quale rischio posso sopportare, neanche a parlarne. Fine del nostro incontro. Mi alzo e me ne vado. Durata della consulenza: 10 minuti scarsi. Interesse verso di me: zero. Avevano il prodotto già bello pronto da rifilarmi e tanti saluti.

Decido di provare con un altro istituto. Le cose vanno persino peggio. Questa volta parlo direttamente col direttore della filiale. Mi chiede per quanto tempo posso tenere vincolati i soldi. Rispondo che tra 6/7 anni potrei aver bisogno di parte delle somme per cambiare l’auto. Il direttore a questo punto si illumina. Mi risponde che per acquistare l’auto non c’è bisogno di disinvestire, e mi consiglia di fare un prestito personale da loro. Per quanto riguarda le somme da investire, mi propone un certificato di deposito con scadenza a 30 mesi (ma io dissi di poterli tener fermi anche 6/7 anni) al 2% di interessi all’anno. Ma come? Io dovrei investire i miei soldi al 2% all’anno e poi, per comprare l’auto, mi viene consigliato di accendere un prestito personale, magari al 9% annuo (se mi va bene). Un’offerta davvero vantaggiosa, per loro. Una vera bestialità per il risparmiatore. Usando le mie somme risparmierei quanto meno i grassi interessi da riconoscere alla banca.

Non mi arrendo, voglio sperare di trovare qualcuno che faccia il proprio lavoro come si deve. Visito altre banche, la storia è quasi sempre la stessa. Interesse verso di me nessuno, l’unica cosa che conta sono i 30 mila. E tra proposte assurde da un lato e furbizia da quattro soldi dall’altro, approdo finalmente al “caso clinico” del nostro sistema bancario.

Anche questa volta mi riceve il direttore della banca. Anzi, ci riceve, perché mi presento in filiale con la mia compagna, spacciandoci per novelli sposi desiderosi di investire i regali di nozze. Il direttore, dopo i convenevoli, ci chiede che orizzonte temporale abbiamo e che rischio siamo intenzionati a sopportare. Io e la mia compagna facciamo finta di non aver capito cosa intendesse e chiediamo di spiegarci che rischi corriamo investendo con loro. Il direttore allora ci chiede se siamo disposti a vedere delle oscillazioni periodiche o meno. Io rispondo di no e che probabilmente questi soldi potrebbero servirci entro 5/6 anni per acquistare una casa più grande. A questo punto ci fa un’offerta abbastanza complessa, consigliandoci di dividere le somme su più prodotti, ma la parte del leone la fanno le obbligazioni della banca stessa. E qui mi fermo. Perché è qui che il nodo è finalmente venuto al pettine.

Le obbligazioni della banca in questione presentavano (e oggi più che mai, presentano) un rischio altissimo (e io avevo chiesto rischio zero). Già al tempo del mio teatrino, la banca navigava in acque nerissime. E il direttore ne era ovviamente a conoscenza. Il punto è questo. La persona che avevamo di fronte ha cercato inizialmente di fare il proprio mestiere con discreta professionalità e buon senso. Almeno nel principio si è comportato in maniera deontologicamente corretta. Ci ha fatto domande. Si è interessato a noi. In parte ci ha ascoltato. Ma al momento della proposta è stato costretto a rifilarci quello che la banca chiedeva di piazzare e che nessuno voleva: le obbligazioni proprie. Un palese conflitto di interessi, che la banca avrebbe risolto a suo favore.

Casi come questi ne vedo tanti purtroppo, anche coi miei clienti, cui in passato è stato rifilato di tutto. Cito un caso in particolare. Riguarda una compagnia assicurativa. Al cliente, desideroso di mettere da parte dei risparmi nel tempo è stata rifilata una polizza vita con versamento mensile. Fin qui tutto normale. Il problema è che non gli è stato detto che su ogni versamento pagava l’ingorda cifra del 12.9% di caricamenti, più i costi di incasso rata e quelli di frazionamento mensile (5%). Ora, considerando che le rate mensili sono tutte uguali, questa persona pagava all’anno la bellezza del 17.9% di costi a fronte di un rendimento netto annuo del 3% circa. Per intenderci, ogni 100 euro versati, 18 se ne andavano di costi e solo 82 venivano versati. Decisamente troppi, anche considerando la garanzia della copertura caso morte. Se avesse mantenuto la polizza fino a scadenza, versando regolarmente,  al ventesimo anno avrebbe riottenuto pressappoco le somme versate più qualcosina. Ma non è finita. Gli era stato spiegato che nei primi 2 anni non poteva toccare le somme depositate, poi, nel caso ne avesse avuto bisogno, avrebbe potuto richiederle. Il problema è che, passati i due anni, se avesse prelevato le somme ci avrebbe perso ben il 60% e questo non gli è stato assolutamente detto. Potete immaginare come è andata a finire.

A questo punto mi preme però sottolineare una cosa. Non è che i “pacchi” vengono rifilati a chi è fesso o ingenuo. Seguo persone molte sveglie a cui sono state vendute ugualmente schifezze. La materia finanziaria è talmente vasta e alcuni prodotti oggigiorno sono talmente complessi che, per chi non è del mestiere, è complicatissimo orientarsi e scegliere in maniera corretta. Il bombardamento pubblicitario e i venditori mandati all’assalto, fanno il resto. Il “fai da te” poi è la strada peggiore, quella dove si prendono sonore fregature. Con una differenza. Non te la puoi prendere con nessuno se non con te stesso.

Allora cosa fare? Quale strada seguire per evitare di incappare in venditori mordi e fuggi, in fregature o peggio ancora, in vere e proprie truffe?

Ecco alcuni consigli utili per fare una buona scrematura.

1) Interesse verso la tua persona.

Prima di dare la tua fiducia (e i tuoi soldi) a qualcuno – anche a parenti e amici – accertati che questo nutra interesse verso di te. Non confondere per interesse verso di te il saluto con mille sorrisi, la telefonata alle ricorrenze o gli inviti a cene ed eventi. Anche questo fa parte della relazione col cliente, ma il professionista veramente interessato a te è quelle che ti fa molte domande: sulla tua vita, sulle tue esigenze, sulla tua famiglia. Ti chiederà l’entità del tuo patrimonio e come è composto, come ti trovi con i prodotti che usi e cosa miglioreresti,  che rischio sei disposto a sopportare, se hai debiti e a quanto ammontano. E così via. Solo alla fine ti chiederà se e con quanto sei disposto a investire con lui. Diffida subito da chi ti butta davanti proposte senza averti prima ascoltato e capito cosa vuoi.

2) Prodotti semplici e linguaggio chiaro e trasparente.

Controlla che ti vengano proposte cose semplici e spiegate in maniera chiara.  Compresi i costi. Se anche dopo la spiegazione, ti risulta poco trasparente quello che ti è stato proposto, non sottoscrivere.

3) Incontri più volte all’anno.

Chiedi l’impegno a chi ti sta di fronte ad incontrarti almeno ogni 6 mesi (3 mesi se la tua situazione è più complessa). Questi incontri servono a fare il punto della situazione, vedere se emergono nuove esigenze e per comunicare eventuali novità nella tua situazione familiare e finanziaria. Chiedi che ti vengano lasciare contatti e recapiti. Se ti viene risposto di no, non fidarti.

4) Evita i conflitti di interesse.

Importantissimo, verifica i conflitti di interesse. Se ti vengono proposti prodotti “di casa” fatti dire perché sarebbero meglio per te, di quelli della concorrenza; soprattutto se chi te li propone ha la possibilità di darti prodotti terzi.

5) Risparmia e investi per uno o più scopi precisi.

Tieni a mente una cosa fondamentale: nessuno ha la possibilità di prevedere il futuro e quindi tanto meno promettere di farti diventare ricco. Lascia stare chi ti propone prodotti spacciati per sicuri garantendo rendimenti importanti. Nella migliore delle ipotesi è un ciarlatano che non sa neppure quello che dice. I rendimenti sperati, vanno di pari passo col rischio assunto. Chi vuole di più, deve rischiare di più. Gli arbitraggi sono rarissimi e di certo c’è chi li ha già colti prima di te. Analizza sempre, insieme al consulente, questi 5 punti: esigenze di breve, medio e lungo termine, coperture assicurative e previdenza integrativa.

6) Fatti lasciare tutti i documenti.

Bisogna sempre farsi lasciare i documenti e conservare quelli ricevuti per posta. Le carte fondamentali sono: i questionari di adeguatezza e antiriciclaggio, i contratti sottoscritti (tutti: di consulenza e dei prodotti), i prospetti informativi e i KIID (Key Investor Information Document). E, prima di firmare, verifica sempre che le informazioni da te fornite, corrispondano a quelle riportate sui documenti. La regola generale è quella di farsi lasciare copia di qualsiasi cosa tu abbia firmato. E’ uno specifico obbligo di legge.

7) Non consegnare mai denaro contante.

Se ti viene richiesto, da chi ti segue, di rilasciargli le password di accesso ai conti correnti, di delegare l’operatività sul conto a lui o peggio ancora, di consegnargli il denaro da investire, in contanti, chiama la polizia. E’ assolutamente vietato dalla legge l’utilizzo di denaro contante per effettuare versamenti riguardanti polizze vite o strumenti finanziari. E’ importante che tu sappia che le pene si estendono anche a chi effettua il versamento, non solo a chi riceve il denaro.

La sana e prudente gestione dei tuoi risparmi richiede un certo impegno da parte tua, che non è quello di essere un esperto di finanza, ma quello di capire chi hai di fronte.

Far lavorare i soldi per noi. Illusione o obiettivo possibile?

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Diversificazione del rischio,  orizzonte temporale adeguato e obiettivi  ben precisi. Questi i punti da cui partire per puntare ad un reddito periodico e alla crescita del capitale nel tempo.

Con lo scoppio della crisi finanziaria ed occupazionale e l’intensificarsi dei suoi effetti, il boom dei giochi a premio e del gratta e vinci in particolare, con Win for Life su tutti, ha riproposto il mito del vivere di rendita, con la speranza di vincere 4.000 € al mese per vent’anni; e da allora è stato un continuo proliferare di gratta e vinci che promettono rendite da nababbi: “Turista per Sempre” della Lottomatica, ad esempio, promette, con l’acquisto di un biglietto da 5 euro la speranza di vincere 200.000, 6.000 euro al mese per 20 anni e almeno 100.000 euro di bonus finale.

Al di là dei “sogni dorati”, realizzati da pochissimi fortunati, volgendo lo sguardo al lato pratico, è possibile e con quali strumenti si può costruire il proprio piano di rendita?

Occorre fare innanzitutto una doverosa premessa. Il vivere di rendita presuppone l’avere già un capitale accumulato. Volendo collocarsi temporalmente nella vita di un lavoratore si può idealmente immaginare di trovarsi in una fase avanzata, sul calare della carriera sia per raggiunti limiti di età o per fuoriuscita “forzata” dal mondo del lavoro. Altro caso concreto potrebbe essere quello di avere avuto guadagni importanti derivanti o da idee imprenditoriali vincenti o ancora da eventi economicamente fortunati (eredità, vincite), che hanno consentito di far “guadagnare” qualche anno al progetto di rendita.

La buona notizia è che per avere una soddisfacente integrazione del proprio reddito non è necessaria una cifra enorme. Già con 30.000 euro, ad esempio, nell’odierno contesto di mercato, si può ottenere una rendita annua pari a circa 1.600 euro (135 euro al mese), senza esporsi a rischi importanti. Se invece consideriamo un capitale di 100.000 euro, la cedola sarà di 5.400 euro lordi all’anno. Per intenderci, più di quanto oggi riesce a fruttare un appartamento al mare di pari valore se lo si fittasse.

Considerato tutto ciò, esiste un’interessante soluzione che consente di combinare un’ampia diversificazione del rischio del portafoglio a una remunerazione periodica dell’investimento, permettendo ai risparmiatori di vivere di rendita con i fondi, o più realisticamente, di integrare il proprio reddito da lavoro per affrontare con più tranquillità le spese quotidiane oppure concedersi qualche spesa in più (viaggi, cene, etc.). La soluzione consiste nel sottoscrivere i comparti dei fondi a distribuzione della cedola.

I fondi comuni di investimento con questa caratteristica assicurano, come tutti i fondi comuni d’investimento, un’efficace diversificazione del rischio (quindi un rischio abbastanza contenuto di avere perdite sul capitale). Il gestore, infatti, investe di solito in centinaia di titoli, il che riduce il pericolo di fallimento a percentuali frazionali del portafoglio: se, per esempio, si hanno in portafoglio 100 titoli (obbligazioni, azioni) di altrettanti diversi emittenti, e uno di questi dovesse fallire o andare particolarmente male, la perdita sarebbe limitata a circa l’1% del portafoglio. Questo permette di poter contare con ragionevole certezza (sebbene senza nessuna garanzia assoluta) che il capitale investito sia, non solo disponibile nel medio lungo termine (dai 3 ai 10 anni o più a seconda della tipologia di comparto sottoscritto), ma anche rivalutato.

In parallelo, come già detto, il fondo che distribuisce una cedola periodica aggiunge un importante beneficio al sottoscrittore: quello, cioè, di incassare una rendita utilizzabile per molteplici finalità: integrare le entrate di famiglia, coprire alcune spese finalizzate a migliorare la qualità della vita (come, per esempio, pagare la retta scolastica piuttosto che l’affitto di una seconda casa al mare o in montagna), finanziarie le rate di un prestito (per l’auto, per gli arredi della casa, etc.), migliorare le risorse a disposizione per il divertimento e per il tempo libero (viaggi, vacanze, palestra, etc.). Senza poi trascurare un’altra importante proprietà che l’incasso della cedola esercita sulla psicologia del risparmiatore. Quest’ultimo, infatti, potendo contare su un reddito periodico, è spinto a concentrare la propria attenzione su come utilizzare al meglio tale rendita e a essere meno apprensivo sul calcolo del guadagno o della perdita del fondo: a quel calcolo ci si potrà dedicare con la giusta calma ogni tre/sei mesi o una volta all’anno.

Tutto questo permette al risparmiatore di beneficiare, anno per anno, dei frutti (sotto forma di cedole periodiche) dell’investimento e di mantenere nel medio lungo termine il valore del capitale investito.

Sul mercato italiano, sono disponibili parecchi fondi a distribuzione delle cedole: qualcuno lo fa una volta l’anno, altri ogni sei mesi, altri ancora ogni trimestre e alcuni, addirittura, liquidano una cedola al mese.

Al momento della scelta dei fondi in cui investire per ottenere la rendita, è opportuno informarsi innanzitutto su come viene generata quella rendita. Questo perché, alcuni fondi, allo scopo di mantenere le promesse circa l’importo fisso della cedola, oltre ai proventi maturati, disinvestono anche parte del capitale. Questa è una cosa assolutamente da evitare, perché intaccherebbe in maniera importante, riducendolo, la fonte primaria della rendita: il Capitale investito.  In linea con quanto appena detto, bisogna poi fare attenzione alle offerte troppo allettanti. Facciamo un esempio. Nel contesto di mercato odierno, caratterizzato da tassi di interesse estremamente bassi, la promessa di cedole elevate, nella maggior parte dei casi nasconde dei rischi occulti: operazioni in derivati e opzioni, disinvestimenti del capitale, utilizzo smodato della leva finanziaria e via dicendo. Oggi, una cedola annua che con ragionevole certezza (ma bisogna sempre verificare) non nasconde sorprese, non dovrebbe superare il 5% lordo. Se desideriamo di più, dobbiamo anche essere disposti a rischiare più del necessario e considerare la possibilità di vedere delle perdite di capitale anche importanti nel breve periodo.

Altro aspetto importante da valutare con attenzione, specialmente se la rendita che il capitale riesce a generare è di modesta entità, è il costo che talune banche fanno pagare ai propri correntisti per l’accredito delle cedole. Il consiglio è quello di aprire un conto corrente dove non sia previsto il costo per l’accredito di cedole e dividenti, e verificare che la banca corrispondente della società che gestisce il fondo non faccia pagare l’accredito di dividenti. In caso contrario si rischia di pagare due volte lo stesso servizio, riducendo così in maniera importante il valore della rendita, specie se di modesta entità e con erogazione frequente (mensile, trimestrale).

Infine, l’investitore tenga presente che, tutti i proventi incassati dalle cedole, non incidono ai fini del calcolo delle imposte sul reddito, in quanto tali proventi, al momento dell’erogazione sul conto corrente, hanno già scontato l’imposta sostitutiva che oscillerà tra il minimo del 12,5% nel caso il fondo sia composto interamente da titoli governativi al 26% nel caso in cui non vi sia presenza di questi titoli o assimilati. Nella realtà, l’imposta sarà calcolata con un’aliquota media compresa tra le due aliquote minima e massima, a seconda del peso che le classi di titoli avranno all’interno del fondo.